Venti anni di moneta unica: l’Euro e l’industria dei servizi. L’analisi di Claudio Cornini

Nuovo appuntamento con QUI LONDRA – rubrica curata da Claudio Cornini*, fondatore della boutique finanziaria londinese Cornhill & Harvest. Una realtà che in partnership con ANIP offre un importante aiuto per lo sviluppo delle nostre imprese.

 

“L’euro ha contribuito alla stabilita’” ma “non c’e’ molto da festeggiare” scrive Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera il 5 gennaio 2019, in occasione del ventennale della moneta unica.

Passando, come piace a noi, dall’astratto dei temi monetari al concreto di tutti I giorni: le aziende ANIP sono abbastanza indifferenti alla valuta. I loro costi e I loro ricavi sono in valuta locale – qualunque essa sia. Ma anche a loro la stabilità, di cui parla Cazzullo, fa bene.

Ma i festeggiamenti? Vi posso dare l’angolo visuale qui a Londra.

Prima i fatti. L’Euro nasce il primo gennaio 1999 (in forma non ancora cartacea – quella è del 2002) ed è oggi adottato dai 19 paesi dell’Eurozona (rispetto agli originari 12) oltre ad alcuni paesi terzi minori in base a specifico trattato (Andorra, Monaco, San Marino, Vaticano) o unilateralmente (Kosovo e Montenegro).

L’euro è inoltre valuta officiale di alcuni territori d’oltremare francesi, come Guiana Francese e le isole dei Caraibi, dell’Oceano Indiano e del Pacifico. All’euro sono inoltre ancorati i paesi dell’Africa Occidentale del Franco CFA. E la ‘Communaute’ Franco Africaine’ è in effetti l’unico altro esperimento, nella storia recente, di valuta comune tra stati con politiche economiche indipendenti (all’epoca coordinato e sostenuto tuttavia dalla Banque de France).

E’ valuta “obbligatoria” per tutti gli stati membri non esentati (e comunque per quelli entrati nell’UE post trattato di Maastricht del 1992), a partire dal momento che tali paesi rispettino i criteri di convergenza economica.

UK e Danimarca, membri dell’Unione Europea da prima del Trattato di Maastricht hanno negoziato l’esenzione dall’adozione dell’euro. La Svezia, che è entrata nell’Unione dopo il trattato, nel 1995, quindi tenuta all’obbligatorietà, ma dove un referendum del 2003 ha bocciato l’ingresso nell’euro…evita di rispettare i criteri di convergenza..!

I paesi maggiori del Gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca) hanno dichiarato l’intenzione politica di non entrare nell’euro. Anche qui a Londra, dalla panchina, si nota che non ci sono state particolari celebrazioni a Bruxelles o altrove per il progetto flagship, bandiera, dell’Unione – al di la’ delle dichiarazioni ufficiali. Anzi, si discute sui giornali se l’esistenza stessa dell’euro sia stato proprio uno dei fattori scatenanti di Brexit.

La centralità dell’Eurozona al progetto UE, che ha di fatto ridotto i non-partecipanti a comprimari, unita alla disfunzionale impossibilita’ (anzi illegitimità) dell’Eurozona di reagire prontamente alle crisi con misure anticilciche, di espansione della spesa pubblica – vietate dal trattato di Maastricht – e’stata vista come una miscela esplosiva. Cosa non solo teorica, dato che economic migrants da Spagna, Italia e dalla stessa Francia, uniti ai newcomers dell’Est Europa post 2015 hanno creato, dal 2004 al 2017, 2.3 milioni di gastarbeitern, frutto del paradosso di essere area economica “libera” da Maastricht (e quindi anticiclica) ma non protetta da frontiera interna verso l’UE, data la libera circolazione delle persone nel Mercato Unico.

Anche il trattamento della Grecia – e della vicina Repubblica di Irlanda – ha fortemente impressionato a suo tempo l’opinione pubblica britannica, che vi ha visto un salvataggio dei sistemi finanziari dei paesi creditori spacciato per mancanza di disciplina fiscale della Grecia (e degli altri stati periferici), come dice Ambrose Evans-Pritchard in un articolo del 3 gennaio sul Daily Telegraph. Molto colpisce lo stare a discutere di decimali del rapporto debito-PIL mentre la disoccupazione giovanile nel Sud-Europa supera il 50%. Insomma “dove sono i cantieri che creerebbero lavoro?” si chiede Aldo Cazzullo.

Con commonsense qui a Londra si immagina che l’unica via d’uscita – che non sia un semplice rimandare, con piccole misure, to kick the can down the road – è l’integrazione delle politiche di bilancio in mano ad un Ministro dell’Economia unico quanto meno per l’Eurozona. L’unica possibilità per ricreare l’indispensabile tensione tra i tecnici della Banca Centrale e la Politica (la quale nella sua sovranità puo’ scegliere ha volte di spendere anche significativamente in deficit (specie in una valuta di riserva mondiale) – facoltà ovviamente sottratta ai governi nazionali della valuta condominiale). Questo a sua volta implica la creazione, quantomeno nel’Eurozona, di uno stato federale con parlamento unico e partiti politici continentali – se non si vuole un deficit democratico tipo quelli che hanno scatenato la Guerra Civile inglese del XVII secolo e la Rivoluzione americana del XVIII (ancora Ambrose Evans-Pritchard).

A questo destino – vero o immaginato che sia – la maggior parte dell’opinione pubblica UK (probabilmente anche piu’ estesa di quella che ha votato Leave nel 2016) non si sente di appartenere. Ah! Il paradosso sarebbe che se ci fosse, magari tra una generazione, un referendum UK per rientrare nella UE, l’esenzione dall’euro prevista dal trattato di Maastricht non si applicherebbe piu’ al UK, in quanto nuovo entrante, e quindi dritti dritti nell’Eurozona…

Claudio Cornini, Director Cornhill & Harvest Limited

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