Qui Londra: Private Equity in Italia, guida alla conoscenza e all’uso per le imprese italiane

di Claudio Cornini, Director Cornhill & Harvest Limited

Qualche considerazione sulla struttura di capitale dell’aziende italiane, sulla scorta di due recenti eventi del calendario finanziario. Il Convegno Annuale (2019) dell’AIFI, l’Associazione italiana del Private Equity, Venture Capital e Private Debt, presieduta da Innocenzo Cipolletta, e la XVIII Conferenza Annuale di Milano dello STAR Segment di Borsa Italiana.

L’AIFI ha reso noto nel corso del Convegno Annuale i dati 2018 sull’investimento di M&A e Private Capital nelle aziende italiane.

Ne esce un quadro in forte di crescita con oltre 100 miliardi investiti nell’anno, di cui il 90% tramite M&A deals e il restante 10% suddiviso tra Private Equity (97%) e Venture Capital (3%). Il private debt si assesta su un miliardo, di cui 46% financing e 49% bonds.

Su tutte le forme di intervento si registrano dati in crescita. Dal +200% dell’M&A al +96% del Private equity e il +65% del Private Debt.

 

 

Alla Star Conference 2019 di Milano, presenti 66 società delle 73 quotate sul segmento STAR (segmento di eccellenza delle PMI quotate a Milano), protagoniste degli oltre 2.300 meeting, con una media di 37 incontri per società. Presenti alla Conference oltre 300 investitori in rappresentanza di 175 case d’investimento di cui 37% italiane e 63% estere. Significativa la presenza di molti Family Offices. Una decina le banche d’affari e i brokers presenti.

Per i nostri imprenditori, abituati ad andare in banca per le esigenze finanziarie, questo brave new world, è forse un po’ disorientante e necessita di qualche istruzione per l’uso.

Proviamo a farlo insieme, visto che qui a Londra, il ricorso a finanziatori non bancari è pratica consueta. Alle banche qui si ricorre per i bonifici e poco piu’. E se di finanziamenti si tratta, poi, è quasi solo per il sostenimento del ciclo produttivo; con quelle forma tecniche e rotative che i fondi non possono offrire dovendo essere fully invested. Ma ne parliamo piu’ oltre.

Il Private Debt è la forma di capitale privato che più ricorda il finanziamento bancario. E’ il finanziamento di medio termine, a 5-7 anni, con piano di ammortamento oppure con rimborso in un’unica soluzione alla fine del periodo. Non e’adatto a finanziare esigenze rotative (i fondi non hanno intervengono per gestire l’elasticita’ di cassa) ma serve per finanziare lo sviluppo, in una forma non diluitiva della proprieta’. Nel Private Debt non si cede infatti il controllo del governo (il capitale rimane invariato in mano all’imprenditore) o economico (si pagano solo interessi). Il finanziatore puo’ chiedere bilanci cetificati (almeno dal momento del finanziamento in poi) e un proprio consigliere di amministrazione o un sindaco. I tassi si aggirano in media sul 6-8%. Nel 2018 il 58% dei finanziamenti erogati in Italia era sotto i € 5M, il 15% nella fascia € 5-10M, il 27% oltre € 10M (dati AIFI). Importante è che la presenza di un investitore di Private Debt consente all’azienda una forma di apprendimento soft alla convivenza con un investitore professionale – come primo passo verso esperienze future di Private Equity o di Borsa.

Il Private Equity (PE) è un investimento di un soggetto finanziario, pensato in primis per lo sviluppo. Si diluisce la proprietà della Famiglia in cambio di un acceleratore di crescita, al fine di realizzare un domani un’uscita vendendo il tutto ad un’azienda maggiore del settore – magari all’estero (la famosa way out). L’idea e’ che avere una fetta minore di una torta molto maggiore fa senso economico per la Famiglia. Inoltre, l’affiancamento di un investitore professionale aiuta nella managerialità delle scelte ed inserisce un freno a derive familistiche che spesso diventano fattori di distrazione dalla “retta via” della gestione aziendale. Nella maggior parte dei casi si cede il controllo strategico al PE investor ma si mantiene quello operativo. Anzi si nota oggi un’interesse crescente da parte dei PE a trovare un lead target che possa aggregare ulteriori soggetti. Il Fondo di Private Equity in sostanza scommette sull’imprenditore e il management team del lead target e ne finanza il programma di sviluppo.

Da notare come, al di la’ delle considerazioni classiche sul PE come capitale di sviluppo, nel 2018, oltre la meta’ (55%) delle operazioni di PE italiane siano state di buyout, ovvero di acquisto, e non di aumento di capitale. Marginale invece, pur se presente (17%), la percentuale di riacquisto (buy back) da parte della Famiglia imprenditoriale delle quote cedute al PE. E’ un’operativita’ spuria che corrompe il concetto di Private Equity e assimila l’operazione sul capitale ad un portage finanziario.

Il Venture Capital – il cosiddetto early stage financing – riguarda una piccola parte degli investimenti diretti e si limita a startup a contenute tecnologico.

L’M&A (Mergers and Acquisitions) in sostanza l’attivita’ straordinaria che prevede la cessione del controllo delle aziende, e’ il segmento piu’ ampio se si guarda al complesso degli investimenti diretti in Italia. Le grandi aziende qui fanno la parte del leone, ma notiamo uno spazio crescente per le aziende di piu’ piccola dimensione.

E’ una classica way out per la Famiglia e il Fondo di Private Equity. Talora il compratore – altro soggetto industriale del settore – è alla ricerca di quote di mercato, ma più spesso di tecnologie o marchi. Sovente l’operazione di M&A trova il suo fattore scatenante nel ricambio (o mancato ricambio) generazionale. La Famiglia vende, monetizza e magari usa la liquidità per creare un proprio Family Office con cui investire – magari nel settore di provenienza, sfruttando le asimmetrie favorevoli di conoscenza.

Un’altra classica way out – spesso quasi mitizzata – è la quotazione in borsa, l’IPO (Initial Public Offering). E’una soluzione che piace alla famiglia imprenditoriale perche’ mantiene in proprie mani l’azionariato di controllo e frammenta il finanziamento di terzi su una pluralità di soggetti. Tuttavia va tenuto conto che la quotazione non si adatta molto ad una azienda in crescita, che necessita di capitali. Infatti ci saranno pochi investitori disponibili a sottoscrivere aumenti di capitale, in quanto manca l’investitore PE con le tasche profonde. Si rischia spesso di finire in un angolo buio dove non si è considerati ne’ dai fondi di investimento (perche’ il titolo e’ illiquido) ne’ dai PE, che vogliono un rapporto immediato, e non limitato dalle regole di simmetria informativa dei mercati regolamentati. e’ qui che entrano in gioco i Family Offices, costretti da meno regole e con piu’ spirito imprenditoriale. E comunque un’IPO funziona se alla fine della food chain, la catena alimentare, c’è un ‘azienda del settore che puo’ fare un’OPA. L’attesa del capital gain e’ il vero fattore che spinge gli investitori di borsa ad entrare su un titolo.

Materia apparentemente complicata – forse.

In realtà più un’arte che una scienza. E’ per questo che la finanza straordinaria va affrontata con chi e’ del mestiere. Non solo per conformita’ alle norme su chi puo’ svolgere attivita’ regolamentate, ma perche’ consci delle dovute attenzioni che le fasi “critiche” di discontinuita’ aziendale meritano.

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